giovedì, Aprile 18, 2024
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Apparenza e realtà: quando le esportazioni nascondono le catene del valore

Esportare! Basta la parola (recitava una réclame di molti anni fa) perché ci sia un incremento del prodotto nazionale? Quando guardiamo ai valori delle esportazioni di un paese siamo portati a ritenere che le maggiori vendite all’estero comporteranno un pari aumento della produzione nazionale e quindi un conseguente effetto sullo sviluppo economico. 
Ma non è sempre così (in verità oggi quasi mai!) e comunque non è così per un paese “trasformatore” come l’Italia.
L’economia mondiale è fatta di un inestricabile intreccio di processi di acquisto e di vendita di prodotti e di semilavorati, e la maggiore quota del commercio internazionale è oggi spostata sul commercio dei beni intermedi, che cioè entrano nella produzione di altre merci per dare poi luogo al prodotto finale.
La situazione è ancora più complessa per l’Italia dove c’è una larga fetta di aziende, in particolare quelle di più piccole dimensioni, specializzata in produzione di componenti, sia per altre imprese italiane a mercato finale sia per altre imprese estere.
Tante nostre aziende (ad esempio circa il 60% di quelle fino a nove dipendenti) operano nella subfornitura, spesso di qualità, e non vendono direttamente i loro prodotti sul mercato di destinazione finale. Quello che effettivamente conta è la quantità di valore aggiunto, ossia di arricchimento dei beni acquistati da altri paesi, contenuta nelle nostre esportazioni. 
In un paese trasformatore e specializzato nella produzione di beni intermedi è questa l’effettiva misura del contributo dell’export alla crescita economica.
L’ultimo Rapporto dell’ICE-Istat ci dà una lettura che si presta anche a considerazioni sulle politiche commerciali. Non sempre da noi vendite all’estero e contenuto di valore aggiunto vanno a braccetto. Non è vero per quanto riguarda le vendite in alcuni paesi che sono strategici, sia attualmente che in prospettiva.
Esportazioni italiane verso i principali paesi di sbocco – 2015
(pesi percentuali sul totale delle esportazioni lorde e in valore aggiunto):

ICE/dati OCSE-OMC

Germania a Francia sono al primo e secondo posto per valore delle nostre vendite lorde (cioè comprensive di acquisti di componenti dall’estero), rispettivamente 12,6% e 10,5% delle esportazioni, ma il contenuto di valore aggiunto “interno” è inferiore. Peculiare è la posizione degli Stati Uniti e della Cina, dove il contributo produttivo italiano è superiore al valore delle nostre vendite dirette, il che significa che le loro importazioni da paesi diversi dall’Italia contengono una certa percentuale di produzione del Bel Paese, che però non è contabilizzata nelle sole statistiche sulle esportazioni e lo stesso vale per il Regno Unito. Addirittura gli Stati Uniti diventano il primo paese acquirente di valore aggiunto prodotto in Italia (quasi il 13% delle nostre esportazioni).
È possibile che questa situazione crescerà nel tempo, a mano a mano che si riduce il ruolo strategico del costo del lavoro nel decentramento delle produzioni e divengono centrali gli aspetti qualitativi della subfornitura (che favoriscono in prospettiva Paesi come il nostro). Si tratta di una tendenza già in atto se oggi solo il 18% del commercio complessivo di beni è fatto di esportazioni dai paesi a basso costo del lavoro verso quelli ad elevato costo del lavoro (come l’Italia).
Ma allora si pongono due questioni: entrambe relative agli effetti di barriere tariffarie e non tariffarie che stanno crescendo in questi anni in conseguenza di politiche protezionistiche di vario genere.
Per un paese molto impegnato nell’esportazione di beni intermedi l’innalzamento di barriere non tariffarie (come gli standard tecnici e fito-sanitari che oggi riguardano circa il 30-35% dei beni esportati con un’incidenza degli scambi commerciali tra il 30 e il 45%) rischia di essere un ostacolo sotto molti versi anche maggiore dell’aumento di regimi daziari che si rivalgono sulle vendite dirette.
L’aumento delle tariffe poi può avere effetti rilevanti anche per l’Italia sebbene non sia stato pensato per colpire le nostre produzioni, perché può essere diretto verso paesi che a loro volta acquistano in modo più o meno rilevante nostre componenti (e sembra proprio il caso della Cina dove il contenuto del valore aggiunto italiano esportato è superiore a quello delle cosiddette esportazioni lorde).
Insomma in termini di valore aggiunto esportato ci troviamo al centro dell’attuale diatriba (sostanzialmente politica) tra Cina e Stati Uniti, anche quando non si vuole colpire deliberatamente le nostre produzioni, per effetto delle integrazioni produttive con altri paesi.
Tutto questo dovrebbe far riflettere chi invoca un ritorno a regimi di accordi preferenziali tra singole economie, e indurre al rilancio di un multilateralismo negli accordi internazionali accantonato negli anni più recenti, dal quale avremmo da guadagnare. 
Il mondo – da tanto tempo – è cambiato… non sempre però i politici delle varie latitudini (anche quando hanno grandi responsabilità) sembrano disponibili a sacrificare le ragioni elettorali alla … realtà dei fenomeni! 
di Gaetano Fausto Esposito – Segretario Generale di Assocamerestero

Gaetano Fausto Esposito, economista si occupa di analisi economica e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. È autore di numerosi saggi sui temi che riguardano i regimi capitalistici, l’economia finanziaria e dello sviluppo, l’economia industriale, l’analisi economico-territoriale e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. Già direttore dell’Area Studi e ricerche dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, componente dell’Unità di valutazione degli investimenti pubblici e docente di Economia applicata in diversi Atenei, attualmente insegna presso l’Università telematica Universitas mercatorum ed è Segretario Generale di Assocamerestero (l’Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’Estero).
 

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