venerdì, Marzo 29, 2024
HomeAssocameresteroDalla politica dei dazi ai dazi per la politica

Dalla politica dei dazi ai dazi per la politica

La guerra non è che la continuazione della politica con altre forme”. Questa frase di Carl von Clausewitz del suo trattato di strategia militare “Della guerra” è particolarmente attuale oggi con riferimento alla guerra commerciale degli Stati Uniti basata sull’istituzione dei dazi.
I dazi nascono per difendere l’economia nazionale in un mondo in cui il riequilibrio della bilancia commerciale è affidata all’aumento delle esportazioni e alla contrazione delle importazioni, in particolare quando il commercio internazionale è fatto da un complesso di relazioni bilaterali tra i singoli Paesi.
In questo caso possono anche produrre effetti economici favorevoli per il Paese che li adotta, e – specialmente quando si tratta di nazioni in via di sviluppo – incentivare la crescita di industrie nascenti, che poi si possono affermare sul mercato.
Vale ancora oggi questa situazione? Può esserlo in alcuni casi, ma non sembra proprio in quello degli Stati Uniti e questo per due ragioni: una di tipo temporale e l’altra di tipo strettamente economico.
La prima riguarda l’approccio utilizzato che sembra di “stop and go”. In altri termini è fatta di annunci e minacce (in particolare da parte degli USA) di provvedimenti adottati e poi revocati, di nuove minacce, rinvii, eccetera. In altri termini non ha un orizzonte temporale adeguato per produrre i relativi affetti, ma sostanzialmente appare come uno strumento “di pressione” in un campo che probabilmente non riguarda il processo di produzione in senso stretto.
E veniamo agli effetti di ordine economico: Il deficit commerciale degli USA nel 2018 è volato ai massimi storici degli ultimi dieci anni: 621 miliardi di dollari (il 3% del Pil rispetto al 2,8% dell’anno precedente), 119 miliardi in più da quando Trump è Presidente!
Non c’è che dire un bel risultato dal punto di vista economico…. ma c’è di più. Un recente studio del Fondo Monetario Internazionale ci dice che in una prima fase le imprese americane (che avrebbero dovuto essere tra i soggetti vincenti), hanno ridotto i loro prezzi al consumo per assorbire l’aumento dei dazi; per non perdere vendite interne hanno contratto i margini di profitto.
Ma ulteriori incrementi si scaricheranno sui consumi, diventeranno una sorta di tassa che grava non sui beni del paese esportatore, ma sugli acquisti di quello importatore: secondo la Federal Reserve di New York l’aumento dei dazi su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi dovrebbe costare ai consumatori americani 106 miliardi di dollari, circa 800 dollari all’anno per nucleo familiare.
Oggi negli USA i consumi sono in crescita – anche per l’aumento della spesa pubblica – ma se questa situazione dovesse permanere rischierebbe di indebolire una delle componenti della domanda interna che spiegano la buona performance del Pil americano.
Con in più un altro effetto sugli acquisti delle imprese che dalla Cina si sono spostati da altri Paesi e in particolare dal Messico, si proprio quel Messico che nei giorni scorsi è stato sotto l’attacco di un’ulteriore minaccia di aumento daziario, ammantata però in modo ritorsivo dalla necessità di bloccare l’eccessivo flusso di migranti alla frontiera.
Ma allora se gli effetti economici sono modesti perché c’è questa insistenza? Il punto è che occorre ritornare alle parole di von Clausewitz: la guerra (dei dazi) è la continuazione della politica con altri mezzi. E in gioco c’è in primo luogo la vera leadership che conta con la rivoluzione industriale 4.0: quella tecnologica, più o meno ammantata da motivazioni nazionalistiche e di protezione.
I dati da questo punto di vista sono impietosi: nelle alte tecnologie, la bilancia commerciale americana ha un passivo che peggiora continuamente: dal deficit di 84 miliardi di dollari del 2016 è arrivata a uno di 129 miliardi del 2018. L’unico grande settore in attivo è rimasto quello aerospaziale, con 86 miliardi di dollari, mentre nell’ICT è stato passivo per 173 miliardi.
Risultati negativi sono stati registrati anche nei comparti delle biotecnologie, delle scienze della vita e della optoelettronica, rispettivamente con -16, -19 e -16 miliardi di dollari.
In un Paese in cui l’industria (ancora oggi motore dell’innovazione) è sempre meno presente a scapito dei servizi (che sono sempre di più) la spinta endogena all’innovazione viene di conseguenza sopita. E con essa – sotto molti versi – anche la futura leadership mondiale.
Del resto la recente vicenda con il Messico dimostra che da una politica dei dazi a scopo di difesa economica si è sempre più passati a dazi politici, che vengono imposti (anche) al di là di motivazioni di irrobustimento dell’economia.
Se il mondo fosse una specie di rete di scambi bilaterali il punto sarebbe grave, ma non gravissimo, però il mondo della quarta rivoluzione industriale è quello delle connessioni reciproche, delle mutue interdipendenze e quindi l’uso dei dazi a scopo politico – grazie alla fitta rete di subfornitura globale e di catene del valore – si diffonde a tutta l’economia mondiale: per effetto delle ritorsioni Usa-Cina il Fondo Monetario Internazionale (nell’ultima riunione del G20) stima una contrazione del Pil mondiale dello 0,5% per il 2020 (circa 455 miliardi di dollari) e una analisi della Banca d’Inghilterra valuta nel medio periodo una perdita di 2,5 punti di Pil per le conseguenze di una espansione ritorsiva dei dazi a livello mondiale.
E poi c’è l’incertezza complessiva derivante da quelle continue politiche di stop and go, che rende molto volatili le aspettative future e quindi incide anche sulle scelte di investimento internazionale di medio periodo delle imprese. Per dirla in altri termini alla fine ci andiamo a perdere tutti!
E allora tornano di stringente attualità parole che furono pronunciate quasi due secoli fa da Richard Cobden in occasione dell’abolizione delle Corn laws nell’Inghilterra (la potenza egemone del tempo) che fissavano dazi sulle importazioni di grano dalle Colonie (per difendere le posizioni della statica aristocrazia terriera di allora): eliminando le barriere si sarebbero create relazioni economiche stabili e durature tra i Paesi alzando i “costi della guerra” e promuovendo la “salutare propensione alla pace”.
Le attuali scelte dell’Amministrazione americana (e dei suoi epigoni), dettate da motivazioni più politiche che economiche e impostate su aspetti bilaterali incuranti delle conseguenze multilaterali e globali in un mondo sempre più interconnesso, vanno in senso opposto. C’è di che meditare, prima che si affermino pericolose involuzioni.
di Gaetano Fausto Esposito – Segretario Generale di Assocamerestero
Gaetano Fausto Esposito, economista si occupa di analisi economica e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. È autore di numerosi saggi sui temi che riguardano i regimi capitalistici, l’economia finanziaria e dello sviluppo, l’economia industriale, l’analisi economico-territoriale e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. Già direttore dell’Area Studi e ricerche dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, componente dell’Unità di valutazione degli investimenti pubblici e docente di Economia applicata in diversi Atenei, attualmente insegna presso l’Università telematica Universitas mercatorum ed è Segretario Generale di Assocamerestero (l’Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’Estero).

Translate