venerdì, Marzo 29, 2024
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Dazi e “cattivi di turno”

Ci sono delle fasi nella storia politica ed economica in cui nell’immaginario collettivo si afferma l’idea di un “cattivo” che scombina ordini consolidati e mette a repentaglio equilibri raggiunti con grande fatica.
In questi ultimi mesi il sistema del commercio internazionale è scosso dalla posizione di Donald Trump il “cattivo di turno” che ha rilanciato la politica protezionistica. Gli altri paesi esportano troppo in America (in primo luogo la Cina), si penalizzano le industrie locali e questo comporta un deficit crescente dei conti con l’estero. Rimedio? Rendiamo più costosi i loro prodotti, con l’introduzione di dazi, in primo luogo verso la Cina.
Una soluzione semplice e antica, ma adeguata in un mondo dove i paesi commerciavano in modo bilaterale prodotti finiti sostanzialmente realizzati nei singoli Stati. In un mondo complicato la scomposizione di fasi produttive a livello mondiale rende difficile prevedere gli effetti dei dazi sui prodotti finali, se le diverse fasi produttive sono disperse tra vari paesi.
Per esempio, l’iphone che fattura 3,6 miliardi di dollari è attribuibile agli USA dove ha sede la Apple, all’Irlanda dove ha sede una sussidiaria che detiene i brevetti, oppure alla Cina dove si realizza, (tra l’altro circa il 60% dei dazi americani verso la Cina pare colpisca produttori non cinesi)? E in effetti è proprio quello che si sta verificando in America dove diversi produttori si stanno rendendo conto che l’effetto finale dei dazi finisce per penalizzare anche loro, rendendo più costose le importazioni di componenti, mentre al contempo si vanno spostando fasi di produzione verso realtà non colpite dai dazi.
La posizione di Trump, se molto controversa in termini di recupero della competitività industriale, e particolarmente pericolosa per la spirale di ritorsioni internazionali che mette in moto, va interpretata anche come un segnale di ordine politico perché ripropone (in modo unilaterale) la questione degli squilibri commerciali internazionali e dei loro effetti.
Un tema da affrontare necessariamente in modo multilaterale, come gli stessi USA hanno fatto nel passato.
Nell’economia domestica accumulare avanzi è sintomo di virtù, indebitarsi un indice di difficoltà. A livello internazionale può essere diverso. E infatti già John Maynard Keynes (ma sempre lui?) aveva evidenziato che dal punto di vista della stabilità internazionale bisognava evitare che l’onere di un aggiustamento imposto dai sistemi monetari fosse sempre e solo a carico dei paesi debitori.
Secondo il grande economista di Cambridge i paesi creditori sono corresponsabili della formazione di eventuali squilibri e quindi devono partecipare allo sforzo di riequilibrio, ben sapendo che il mercato non riesce da solo ad appianarli. Aveva ipotizzato un meccanismo di compensazione basato su di una sorta di moneta bancaria “di conto” (il bancor) per attuare i riequilibri attraverso un accordo tra i diversi Stati sia per i surplus che per i deficit. Ma allora l’economia egemone (l’America) non era d’accordo e aveva fatto adottare alla Conferenza di Bretton Woods il dollaro come moneta internazionale (per l’aggancio che aveva all’oro).
Donald Trump, sottolineando il tema degli squilibri commerciali identifica una risposta – quella dei dazi – che si pone sulla superficie del problema, tende ad affrontarlo in una logica difensiva e unilaterale riferita agli Usa che poi non è risolutiva per l’industria nazionale americana. Ma è un problema divenuto ben noto anche in Europa, soprattutto da quando c’è una costruzione monetaria che impedisce questo riequilibrio.
Qui la politica daziaria americana tende a colpire soprattutto i rapporti bilaterali con la Germania il cui surplus verso gli USA vale circa il 9% del Pil tedesco. E Berlino continua ad accumulare rilevantissimi avanzi. Una situazione enfatizzata da quando esiste l’Euro.
In un sistema di cambi flessibili le parità tra le monete si stabiliscono sulla base di diverse condizioni tra le quali la produttività dei fattori. Un eccesso di avanzo porta a una sopra-valutazione del cambio del paese che esporta di più: se vendo più beni all’estero gli acquirenti dovranno chiedere più moneta nazionale per pagare le mie esportazioni, di conseguenza aumenta il prezzo della mia moneta nei termini delle altre, il che renderà in prospettiva meno convenienti le mie esportazioni.
Ma in un sistema di cambi fissi, anzi con una moneta unica per più paesi – come accade con l’Euro – la moneta in questione non riflette la maggiore produttività della Germania, ma quella media di tutti i componenti dell’Unione e quindi – di fatto – l’Euro consente un vantaggio competitivo all’economia continentale più forte, che gode di una situazione di privilegio rispetto a un sistema di cambi flessibili perché si sottovaluta la reale situazione di mercato.
Una situazione che si auto-alimenta se c’è anche un differenziale di crescita della produttività nel tempo (nel 2018 in Germania la produttività crescerà di circa l’1,3%, da noi di circa la metà) e il paese in questione non attua politiche espansive. Perciò non c’è meccanismo automatico di riequilibrio, non solo verso gli Usa, ma neanche verso gli altri membri dell’Unione europea in condizioni strutturali di minore produttività, chiamati a competere al costo di una svalutazione interna che passa attraverso la compressione – in primo luogo – dei salari.
Ecco perché dietro la posizione del “cattivo di turno” c’è in gioco il riequilibrio globale dei saldi commerciali attraverso meccanismi concertati in cui la virtù non si misura solo con l’ampiezza dei surplus delle partite correnti, ma secondo la capacità di dare un contributo effettivo a una maggiore stabilità internazionale. Sotto alcuni aspetti si tratta di un problema di equità… un’equità internazionale, che pone l’esigenza di rivedere misure di stabilizzazione anche per la costruzione della moneta europea.
Quello che Valery Giscard d’Estaing (ministro delle Finanze di De Gaulle e poi presidente della Repubblica francese) chiamò “esorbitante privilegio” attribuito agli Usa per aver imposto il dollaro come moneta di regolamento internazionale impedendo un riequilibrio dei deficit per via monetaria, potrebbe allora valere – con un significato opposto – per l’economia tedesca che, per effetto dell’attuale costruzione monetaria europea, sembra condannata ad alimentare i propri surplus, contribuendo però in modo analogo agli squilibri economici mondiali.
Non è giunto forse il momento di pensare seriamente a nuove forme di compensazione, magari sulla scia delle questioni poste dal “cattivo di turno”?
di Gaetano Fausto Esposito – Segretario Generale di Assocamerestero
Gaetano Fausto Esposito, economista si occupa di analisi economica e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. È autore di numerosi saggi sui temi che riguardano i regimi capitalistici, l’economia finanziaria e dello sviluppo, l’economia industriale, l’analisi economico-territoriale e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. Già direttore dell’Area Studi e ricerche dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, componente dell’Unità di valutazione degli investimenti pubblici e docente di Economia applicata in diversi Atenei, attualmente insegna presso l’Università telematica Universitas mercatorum ed è Segretario Generale di Assocamerestero (l’Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’Estero).

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