giovedì, Marzo 28, 2024
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Perché sostenibilità sociale e catene globali del valore vadano a braccetto

Il mondo è sempre più un contesto di “rapporti liquidi” (come direbbe Zygmunt Bauman il sociologo della società liquida)!
Le relazioni economiche sono caratterizzate da una fortissima fluidità, in cui si intrecciano a livello globale flussi di acquisto e vendita di componenti di beni e di servizi. È il mondo delle cosiddette catene globali del valore, che oramai caratterizzano oltre la metà degli scambi internazionali.
Eppure continuiamo a guardare questo intreccio come un insieme di relazioni bilaterali tra Paesi. E così facendo non cogliamo né la complessità dei fenomeni e neanche i loro profondi effetti sociali.
Le recenti querelle sull’applicazione dei dazi – per esempio – riconducono il tema a una serie di relazioni bilaterali tra Paesi e a una questione esclusivamente di ordine economico: alziamo barriere di prezzo e puniamo i paesi che riducono artificiosamente i loro costi di produzione.
Ma esiste un dumping molto più pericoloso e distruttivo rappresentato dal dumping sociale, ossia dalle diverse questioni di sfruttamento delle risorse umane e ambientali, che influenzano negativamente il benessere delle persone, agiscono negativamente sulle condizioni di vita dei lavoratori e hanno anche implicazioni di ordine economico.
Si tratta di aspetti che riguardano la sostenibilità sociale, che genera vantaggi di costo derivanti dallo spostamento delle produzioni in Paesi in Via di Sviluppo il cui quadro normativo e sistema dei controlli sono più bassi rispetto a quelli dei Paesi sviluppati.
Proprio l’articolazione dei processi di produzione e la loro scomposizione a livello globale rende più difficile verificare il rispetto dei valori di sostenibilità, da un lato e si presta a una loro manipolazione dall’altro, soprattutto da parte di grandi brand a livello internazionale.
In un mondo di rapporti bilaterali è abbastanza facile cogliere questi aspetti, ma diventa molto complicato quando i prodotti sono il frutto di complesse triangolazioni che danno luogo a un caleidoscopio di passaggi produttivi: una maglietta acquistata in Europa può essere cucita in Cambogia, con tessuti prodotti in Cina derivati da cotone coltivato in Uzbekistan e colorati in India utilizzando prodotti tedeschi.
In questi casi è ben possibile che qualcuna delle sue fasi produttive incorpori fenomeni di sfruttamento individuabili in maniera diversa, ma di cui non si riesce alla fine a cogliere l’impatto sul prodotto finito. Proprio nelle filiere di fornitura allungate si annidano perciò i maggiori pericoli per la tutela dei diritti umani, della salute, sicurezza dei lavoratori e della tutela dell’ambiente.
Il tema della sostenibilità a tutto campo è da tempo nell’agenda internazionale: un punto di riferimento sono i 17 obiettivi che compongono i Sustainable Development Goals (SDG) individuati dalle Nazioni Unite per evidenziare (attraverso un articolato sistema di indicatori) le relazioni esistenti tra crescita economica, tutela ambientale, inclusione sociale e diffusione del benessere, con target al 2030.
Ed è sempre più presente nella consapevolezza delle nuove generazioni, (che si identificano con le lettere terminali dell’alfabeto) quella Y (i millennials nati poco prima degli anni novanta) e Z (ossia i centennials nati a cavallo del secolo e entro il 2010). Saranno queste le generazioni ad avere in mano il mercato dei prossimi anni e a dettare i driver delle scelte di consumo, un consumo sempre più legato alle loro propensioni ideologiche in termini di cause alle quali si sono votati, tra cui spesso è presente quella di una effettiva sostenibilità, riflesso di una maggiore esigenza di equità, vista come una delle dimensioni del benessere più complessivo (per esempio il 70% dei centennial condivide le preoccupazioni sul cambiamento climatico).
Che facciamo allora? Fermiamo la globalizzazione, rendiamo più onerosi lo scambio tra Paesi di fasi produttive, per migliorare le questioni etico-sociali? L’approccio protezionistico sta avendo già pericolosi contraccolpi e poi… non risolve i problemi in un mondo multilaterale.
Ma c’è la strada di alzare la soglia dei controlli nei Paesi sviluppati sugli acquisti da fabbriche nei PVS. Questa è la strategia scelta dall’Unione europea sulla via di quella già avviata dalla Francia (Legge sul Devoir du Surveillance introdotta nel 2017) o quella approvata dal Regno Unito (sulla Transparency in Supply Chain Provisions).
E l’Italia? Il recentissimo Rapporto dell’Istat sulla situazione del Paese ci dice che da noi si stanno facendo grandi progressi sul versante del rispetto di diversi obiettivi di sostenibilità, sebbene il tema riguarda sostanzialmente gli aspetti ambientali (come la riduzione dei consumi di risorse naturali).
Si potrebbe fare molto di più sulla trasparenza dal punto di vista della sostenibilità sociale più allargata e in particolare per quanto riguarda il nesso tra qualità del lavoro e produzione (lavoro dignitoso e sviluppo: obiettivo 8 degli SDG), che andrebbe verificata su tutta la filiera.
Soprattutto considerando che da noi la domanda di valore aggiunto prodotto fuori dall’Unione europea è abbastanza consistente, con rischi che in queste fasi si annidino problemi di sostenibilità sociale.
Un esperimento molto interessante al riguardo è il progetto Get it Fair, primo schema di responsible labelling in Italia basato su linee guida (OCSE, ILO, eccetera) e norme (ISO 26000) internazionali con l’obiettivo di fornire alle imprese non solo uno strumento per valutare i rischi di impatti avversi a cui sono esposte lungo le filiere di fornitura, ma anche un supporto all’informazione da fornire al mercato in una logica di valorizzazione dell’informazione su questi processi.
Un progetto che vede il coinvolgimento di Assocamerestero, e quindi della rete delle Camere di commercio italiane all’estero, in partnership con ICMQ (un soggetto di certificazione) nella convinzione che solo attraverso un approccio di rete integrato locale-estero e locale-Paese (che quindi entra all’interno delle catene del valore) si possa cercare di ricomporre uno scenario di globalizzazione più attento ai valori etici e del rispetto di sostenibilità e quindi dare un contributo concreto al miglioramento del benessere complessivo perché attento al rispetto delle persone.
di Gaetano Fausto Esposito – Segretario Generale di Assocamerestero
Gaetano Fausto Esposito, economista si occupa di analisi economica e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. È autore di numerosi saggi sui temi che riguardano i regimi capitalistici, l’economia finanziaria e dello sviluppo, l’economia industriale, l’analisi economico-territoriale e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. Già direttore dell’Area Studi e ricerche dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, componente dell’Unità di valutazione degli investimenti pubblici e docente di Economia applicata in diversi Atenei, attualmente insegna presso l’Università telematica Universitas mercatorum ed è Segretario Generale di Assocamerestero (l’Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’Estero).

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