sabato, Aprile 20, 2024
HomeAssocameresteroUn capitalismo imprenditoriale civile e globale per contrastare la diseguaglianza

Un capitalismo imprenditoriale civile e globale per contrastare la diseguaglianza

Quanto pesa l’1%? Ogni volta che il Word Economic Forum di Davos Oxfam diffonde il suo Rapporto (come è accaduto anche quest’anno) si apre la disputa sulla crescente diseguaglianza nel mondo: tra il 1980 e il 2016 l’1% della popolazione mondiale più ricca ha assorbito il 27% dell’incremento totale del reddito complessivo; di tutta la ricchezza globale creata nell’ultimo anno ben l’82% è andata all’1% più ricco!

L’1% (più ricco) pesa e pesa tanto, troppo!
Questa situazione è spesso messa in relazione con la forma del sistema capitalistico globalizzato, visto come una macchina per creare diseguaglianze inaccettabili e sfruttamento crescente. C’è molto di ideologico nel dibattito tra i difensori e gli oppositori di questo sistema: i primi ritengono che la crescente ricchezza prima o poi sgocciolerà (si parla di trickle down) su tutti gli altri (o su buona parte di questi), gli altri sostengono che la marea della crescente ricchezza di pochi non alzerà tutte le barche ma… affonderà quelle (le tantissime) più piccole!

Ci sono però dei fatti inconfutabili: il crescente sviluppo degli scambi mondiali ha ridotto la povertà: tra il 1990 e il 2010 si è dimezzato il numero delle persone in condizioni di estrema povertà (che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno) e il processo è proseguito negli anni successivi. Un bel risultato ascrivibile agli stessi fenomeni di globalizzazione. Ma… non basta, sostengono in diversi, devono intervenire i Governi per riequilibrare un processo ingiusto.

L’apertura globale delle economie ha dato un importante contributo nel passato. Quando è che il meccanismo si è inceppato? Quando la crescita della ricchezza non si è più sostanzialmente basata sull’aumento degli scambi, sullo sviluppo delle produzioni di beni e servizi, ma si è avvitata sull’economia della finanza di carta, un solo dato: negli Stati Uniti dal 2009 il Pil è aumentato del 18%, l’indice borsistico Dow Jones del 263%.

Il capitalismo della finanza sostituisce alla figura dell’imprenditore il ruolo dello speculatore, all’azione di chi produce e distribuisce reddito quanti quel reddito fanno crescere con più o meno sofisticati processi di sfruttamento di rendite finanziarie.
Allora l’imputato della crescente diseguaglianza non è il capitalismo nella sua forma globale, ma la distorsione del capitalismo finanziario alimentato da rendite, monopoli e privilegi e infatti lo stesso Rapporto Oxfam ci dice che circa due terzi dei patrimoni dei miliardari del mondo sono il prevalente frutto di eredità, monopolio e anche clientelismo (una distorsione spesso derivante dal monopolio).
Cosa è successo? Che via via nel tempo si è persa la genuina motivazione imprenditoriale “a fare”, tutta sopita – da un lato – dalla rincorsa alla rendita finanziaria, dall’altro dal ruolo delle tecnostrutture manageriali preoccupate dei profitti di breve termine – e dei loro sostanziosi incentivi legati all’aumento dei valori azionari di mercato – al posto di prospettive di più lungo termine e di crescita effettiva, le sole capaci di produrre un benessere duraturo e soprattutto più partecipato.
Al medio-lungo termine, all’investimento sul futuro si è sostituita l’azione di brevissimo respiro, che si consuma nel (e consuma il) presente!
Il guasto non sta nel sistema capitalistico – che per dirla con Philip Kotler (inventore del moderno marketing) è il modo peggiore di gestire un’economia, a parte tutte le altre forme che hanno fallito – ma nel fatto che in progresso di tempo si è affermata una modalità capitalistica di marca neo-liberista dove manca l’imprenditore, ossia chi è interessato a creare valore, e spesso anche valori per la società, e non solo a far crescere la propria retribuzione a scapito degli altri.
Si è affievolito, fino a venir meno, un genuino spirito imprenditoriale, sostituito dal miraggio della facile ricchezza, di un’accumulazione fine a se stessa, ottenuta senza mettere alla prova quello spirito di intraprendenza che ha caratterizzato non solo il capitalismo nascente, ma anche tante forme contemporanee di capitalismo di successo, dove la base (e anche la giustificazione sociale se vogliamo) della ricchezza sta nell’aver avuto il coraggio di mettersi alla prova e rischiare, di sperimentare soluzioni diverse e innovative e un pezzo importante della ricompensa è nell’essere riconosciuti gli artefici e i protagonisti di questo sforzo, gratificati (anche) dall’aver superato ostacoli e difficoltà, affermando il proprio progetto di sviluppo.
I Governi facciano il loro lavoro per creare un mondo migliore, come – proprio a Davos – ha esortato una delle icone dei giovani leader visionari, il Premier canadese Justin Trudeau.
Ma dal punto di vista della società globale serve l’affermazione di un capitalismo imprenditoriale connotato anche dall’aggettivo “civile”, perché il processo creativo deve coniugare aumento del valore dell’impresa con crescita dei valori di condivisione e di reciprocità – variamente intesa – alla base di una maggiore equità e che quindi comportano anche riduzione delle diseguaglianze di reddito, ma pure sociali, di innovazione, di genere…
Recuperare il nesso tra capitalismo e imprenditore (mettendo al centro l’impresa vera) significa valorizzare un processo creativo allargato: la vera motivazione a far partecipare anche gli altri dei risultati del proprio successo comporta – sotto molti versi – un tuffo nella nostra storia economica, ripensando all’esempio di tanti imprenditori piccoli (e anche grandi) che nel loro agire traevano ispirazione dal conseguimento di una forma di “felicità” (per dirla con un lessico antico, ma anche moderno) non solo misurata sul metro delle cose materiali (una felicità edonistica), ma che includeva anche forme di reciprocità con gli altri e un processo più allargato di partecipazione e di coinvolgimento: una “felicità pubblica” che supera il senso del ben avere e punta al ben e buon vivere.
Tutto questo costa contro la globalizzazione? Pensiamo di no e forse un esempio tratto dalla storia industriale del nostro paese sta a dimostrarlo: l’Olivetti di Adriano era una realtà multinazionale e globale (ante litteram) in cui valori civili e crescita del business convivevano e si tenevano assieme in un progetto di reale sviluppo.
Ma ci sono anche tante storie d’imprenditori e imprese (magari non così eclatanti e note) che ancora oggi caratterizzano il nostro paese, in cui c’è voglia di fare e mettersi alla prova, si esprime un senso della sfida e la volontà di saldare economia e società, per sanare la grande ferita apertasi con il turbo capitalismo finanziario, recuperando e diffondendo i valori della nostra storia d’impresa e leggendoli in uno scenario che mette in risalto il “volto umano” della globalizzazione: quello della sfida imprenditoriale, della partecipazione e dello sviluppo di genuine idee di business, che vivono nel tempo e non si inceneriscono come è stato per l’economia della finanza di carta.
di Gaetano Fausto Esposito – Segretario Generale di Assocamerestero
Gaetano Fausto Esposito, economista si occupa di analisi economica e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. È autore di numerosi saggi sui temi che riguardano i regimi capitalistici, l’economia finanziaria e dello sviluppo, l’economia industriale, l’analisi economico-territoriale e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. Già direttore dell’Area Studi e ricerche dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, componente dell’Unità di valutazione degli investimenti pubblici e docente di Economia applicata in diversi Atenei, attualmente insegna presso l’Università telematica Universitas mercatorum ed è Segretario Generale di Assocamerestero (l’Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’Estero).

Translate