75° Costituzione: Articolo 41, socialità e dignità della persona per lo sviluppo imprenditoriale, di Gaetano Fausto Esposito

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Un aspetto che caratterizza la nostra Costituzione è sotto molti versi la sua resilienza, per usare un termine che è diventato abituale per effetto della triste esperienza del Covid, ossia la capacità di assorbire tanti shock economici, politici sociali, dimostrandosi sempre attuale e anzi rappresentando, per usare le parole del Capo dello Stato, sempre una “bussola” per la nostra Repubblica.

Eppure si tratta di una Carta scritta 75 anni fa nel dopoguerra in un mondo molto molto lontano dall’attuale. Ma, pur con qualche modesto adeguamento (per la verità non sempre migliorativo) rappresenta “il” punto di riferimento non solo istituzionale, ma anche sociale e valoriale.

Questa considerazione vale anche (e sotto molti versi soprattutto) per l’articolo 41 che definisce uno dei pilastri di un moderno stato democratico e liberale, ossia la libertà di intraprendere.

Oggi l’Italia a livello internazionale si connota per una struttura imprenditoriale numerosa e diversificata. Con più di quattro milioni di imprese siamo uno dei paesi europei con la maggiore densità imprenditoriale in rapporto alla popolazione e in Italia risiede ed opera il 14% di tutte le imprese dell’Unione.

La libera iniziativa imprenditoriale è la maggiore espressione della democrazia economica, perché attiene alla libertà di una persona di poter contribuire al processo di produzione della ricchezza che è alla base della prosperità di un paese e che si riconnette in primo luogo all’attività d’impresa.

Non solo, l’impresa è il principale luogo di occupazione. Oggi l’87% degli occupati lavorano nel settore privato, quindi caratterizzato in diverso modo e grado da una forte intraprenditorialità, e solo per il restante 13% nella pubblica amministrazione.

Ecco quindi che l’affermazione del primo capoverso dell’art. 41 che dichiara libera l’iniziativa imprenditoriale ha un valore assoluto nella sua semplicità.

Tuttavia se ci si fosse fermati a quella sola affermazione saremmo di fronte a una tipica norme di uno stato liberale, senza ulteriori qualificazioni. Ma invece l’art. 41 stabilisce una serie di qualificazioni che ne caratterizzano proprio la capacità di resilienza nei vari tempi storici.

All’epoca il Paese usciva dall’esperienza dello stato fascista di matrice corporativa che aveva dato vita a una forma di economia mista in cui la capacità di indirizzo pubblico attraverso quello che sarebbe diventato nel tempo il sistema delle partecipazioni statali e dell’impresa pubblica era molto pervasivo, per quanto la stessa Carta del lavoro del 1927 qualificava l’iniziativa economica privata come uno strumento per il perseguimento degli obiettivi di benessere individuale e dello Stato.

E come è capitato in tante altre occasioni della nostra Assemblea costituente la formulazione finale è il frutto di un equilibrio tra le tre matrici fondamentali che si sono confrontate nella stesura della nostra Carta costituzionale: quella cattolica, quella liberale e quella socialista (o social-comunista).

Ciascuna di queste impostazioni era portatrice di “valori” ben definiti e spesso contrastanti con gli altri: l’anima cattolica era ispirata a un solidarismo sociale e diffidava di una impresa attore esclusivo di un mercato impostato sulla base di rigidi principi capitalistici fondati sulla esclusiva iniziativa privata senza limiti.

L’anima liberale invece, proprio come reazione all’esperienza dei regimi autoritari, diffidava di tutti quei sistemi di regole e di costrizioni che avrebbero potuto imbrigliare la creatività individuale che si trasformava nell’impresa, di fatto poi vanificandola o funzionalizzandola ad altre finalità ritenute di interesse pubblico. Quest’anima vedeva nel libero mercato il paradigma di una democrazia economica scevra da vincoli e imposizioni libera da quei “lacci e lacciuoli” espressione che Luigi Einaudi, autorevole padre costituente e dotto economista liberale (non liberista) aveva usato tra i primi, anche se poi l’espressione è divenuta nota per l’utilizzo che ne ha fatto soprattutto un altro grande economista come Giudo Carli (anch’egli di orientamento squisitamente liberale).

Infine ci si confrontava con l’anima socialista che sospettava dei una impresa orientata secondo la finalità del profitto, una impostazione che vedeva nello sfruttamento del lavoro di matrice marxista il fondamento del capitalismo e la genesi dei processi di disuguaglianza sociale.

Eppure queste tre anime, ancora una volta, diedero vita a una versione di sintesi che integrava le diverse esigenze e che rappresenta l’approccio innovativo della nostra Costituzione, nonchè sotto molti versi il segreto della sua modernità e resilienza.

La sintesi è evidente nel secondo comma dell’articolo quando si stabilisce che l’iniziativa “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Due elementi in particolare preme sottolineare: il riferimento all’utilità sociale e quello alla dignità umana.

Il primo in qualche modo rappresenta l’orientamento dell’iniziativa economica a un interesse più complessivo della società. E questo interesse è mutevole nel tempo perché presenta caratteristiche storicamente determinate che si evolvono, così come cambia e si modificano i fenomeni rilevanti dal punto di vista sociale.

Ecco perché secondo alcuni economisti, come Ignazio Musu, nell’ambito dell’utilità sociale si può ritenere anche inserito coerentemente la tutela della concorrenza, in quanto la sua tutela consente di migliorare il benessere complessivo dei consumatori e quindi di una società, in altri termini configurerebbe per le sue caratteristiche un vero e proprio bene pubblico, ossia uno di quei beni che spetta proprio al settore pubblico diffondere anche nella coscienza dei comportamenti delle persone.

E qui veniamo al secondo aspetto citato nell’art. 41 ossia quello della dignità della persona. In molti evidenzierebbero in questo richiamo la situazione dei lavoratori e in questo caso la libera iniziativa economica privata non può ledere la dignità di quanti sono impiegati nell’impresa. La produzione della ricchezza non può infatti avvenire mortificando la prestazione lavorativa.

A mio modo di vedere esiste una stretta relazione tra utilità sociale vista sotto il profilo della concorrenza e dignità. In una logica di sviluppo reale, economico e della persona, i due aspetti sono per molti versi inscindibilmente legati.

Questa stretta relazione richiama se vogliamo alla tradizione italiana di economia civile che rimonta all’approccio di Antonio Genovesi di metà del 1700. In questo approccio (che fu poi sviluppato successivamente da tanti altri nostri intellettuali tra i quali Cesare Beccaria e soprattutto Carlo Cattaneo) l’economia cresce e si consolida attraverso un complesso di rapporti fiduciari tra le persone e non mediante forme di contrapposizione.

In questo ambito si colloca anche la valorizzazione della concorrenza come un principio che diviene costituzionalmente tutelato nella misura in cui coniuga espressione di libertà di intraprendere, benessere sociale e dignità della persona.

La competizione assume il significato etimologico di cum petere ossia di concorrere, andare insieme tutti in una direzione che è quella dello sviluppo, di un maggior livello di benessere e soprattutto in cui sia possibile orientarsi verso la felicità pubblica che significava miglioramento della qualità complessiva della vita in termini materiali e valoriali.

A differenza della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del 1776, dove il diritto alla felicità è esplicitamente previsto (sembra su suggerimento del filosofo Gaetano Filangieri che aderiva ad un approccio civile all’economia) la nostra Costituzione non parla di diritto alla felicità, ma la libera iniziativa privata è una leva non solo per la realizzazione dell’imprenditore, che ha ben il diritto di godere i frutti del suo impegno attraverso il conseguimento del profitto, ma anche per un migliore benessere sociale che punta al concetto di felicità.

In questo senso va inteso anche il richiamo del terzo capoverso dell’art. 41 quando si fa riferimento alla circostanza che “l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”. E qui probabilmente emerge la convinzione di buona parte dei costituenti che il mercato da solo non basta per assicurare un progresso equilibrato e inclusivo. La lungimiranza di questo approccio l’abbiamo sperimentata con la reazione all’approccio neoliberistico di matrice anglosassone che ha caratterizzato l’economia mondiale a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso e cha ha comportato la crescita della disuguaglianza all’interno di molti paesi sviluppati.

L’iniziativa imprenditoriale privata si inserisce in un ambito di coesistenza con quella pubblica ed entrambe vanno indirizzate ai fini sociali e (più recentemente) ambientali. Quest’ultima recente innovazione nella nostra Carta costituzionale, che risale allo scorso anno (insieme a quella inserita all’art. 9 che tratta di tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni) rappresenta una esplicitazione delle finalità sociali che assume rilievo in una logica di approccio internazionale e soprattutto europeo.

Ma allora tutela e promozione della concorrenza, secondo la visione dell’economia civile, dignità della persona e tutela dell’ambiente e della biodiversità, rappresentano non solo valori che il sistema pubblico deve garantire attraverso l’azione legislativa ed amministrativa, ma caratteristiche da ritrovare nella stessa azione imprenditoriale e che sono da ritenersi basilari nel perseguimento delle genuine libertà di una moderna democrazia.

Gaetano Fausto Esposito, Direttore Generale Centro Studi delle Camere di Commercio “Guglielmo Tagliacarne” e docente di Economia Politica all’Universitas mercatorum. Autore di numerosi saggi e volumi sui temi dell’economia finanziaria e dello sviluppo, dell’economia industriale e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. Attualmente si occupa del ruolo dei processi fiduciari nello sviluppo economico e di economia della sostenibilità istituzionale.