sabato, Aprile 20, 2024
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Video killed the radio star: automazione, intelligenza artificiale e neo-liberismo uccideranno le professioni intermedie?

“Noi… siamo colpiti da una nuova malattia […] di cui sentiranno molto parlare i prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. La disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera. Ma questa è solo una fase di squilibrio transitoria”.

Così scriveva nel 1930 John Maynard Keynes, in una delle sue “profezie”. Se i social media hanno una loro razionalità (peraltro molto discutibile) contando le citazioni su Google l’automazione distruggerà molti posti di lavoro: a fronte di poco meno di 700mila citazioni sul ruolo dei computer nel conservare lavori 78 milioni parlano di distruzione.
Tutto chiaro? Manco per niente perché l’effetto di questa rivoluzione è tra gli argomenti più discussi tra economisti, sociologi, e quanti si occupano (ahi loro) di predire il futuro della nostra vita; secondo uno studio della McKinsey da qui al 2030 riguarderà da 400 o 800 milioni di occupati. Già oggi le macchine sono responsabili del 29% dei compiti lavorativi, raggiungeranno nel 2022 il 52%.
Ci sono valutazioni di quanti prevedono riduzioni nette dei posti di lavoro, come l’OCSE per cui il 14% dei lavori nei Paesi industrializzati è ad alto rischio e quelle di altri come l’economista Daron Acemoglu del MIT di Boston per cui, almeno sugli Stati Uniti, ci sarà un incremento di circa l’1% del tasso di disoccupazione entro il 2025.
Il Word Economic Forum stima entro il 2022 75 milioni di posti persi e 122 milioni di posti creati, con un incremento di 58 milioni di posizioni lavorative. In fin dei conti col passaggio dalla trazione animale al motore a scoppio i maniscalchi sono scomparsi ma si sono diffusi i meccanici per gli automezzi. Nella babele di previsioni è difficile raccapezzarsi.
La posizione neo-liberista al riguardo è chiara: il progresso aiuta lo sviluppo della produttività, prima o poi i mercati si riequilibrano e con essi anche i posti di lavoro. Ma qui si tratta di un processo molto segmentato, diseguale e… velocissimo: il livello di rischiosità varia in primo luogo secondo la composizione settoriale del Paese.
Per un recentissimo studio di Federmanager su “Intelligenza artificiale, innovazione e lavoro” l’Italia è al primo posto tra i Paesi occidentali che avranno contrazione dei posti di lavoro nei prossimi anni, seguita da Regno Unito, Francia e Germania. Ma oltre all’impatto settoriale c’è quello sulle mansioni svolte: i convinti assertori delle logiche di mercato sostengono la tesi della “compensazione” che riguarda fondamentalmente due aspetti: da un lato la possibilità che la tecnologia agisca per trasformare le professioni tradizionali, dall’altro che questa riduca posti di lavoro in alcuni campi, ma li aumenti in altri, collegati (o meno) con le nuove applicazioni.
I drivers di queste modificazioni sono rappresentati da intelligenza artificiale, internet mobile, big data e cloud e avranno un impatto molto forte nel porre la questione da un lato della riqualificazione e del reskilling e upskilling e dall’altro nel cambiamento di mansioni, magari con uno spostamento verso il basso.
In linea generale c’è un certo accordo nel ritenere che saranno le professioni intermedie, quelle a maggiore impatto routinario e standardizzato nei processi di lavoro – come i posti di ufficio, produzione e preparazione alimentare – a essere maggiormente a rischio, con oltre il 70% dei tasks potenzialmente automatizzabili, in quanto comportano raccolta ed elaborazione di informazioni non molto complesse.
Le mansioni di elevato profilo, ma anche quelle più semplici (pensiamo a quanti si prendono cura in vario modo delle persone e al vasto campo dei servizi domestici) sarebbero invece meno soggette alla possibilità di sostituzione da parte delle macchine.
Ma allora si apre un tema che non riguarda i soli numeri dei posti persi e guadagnati, quanto la loro qualità! Nell’area a più alto rischio lavorano maggiormente gli esponenti della cosiddetta classe media che è già stata pesantemente colpita dall’ultima crisi mondiale e rischia di essere ancora una volta penalizzata dal rallentamento dell’economia mondiale in atto.
Secondo la Banca Mondiale il 52% degli addetti richiedono un training significativo per far crescere i propri skill o per acquisirne di diversi. Si tratta sostanzialmente di persone che occupano le posizioni intermedie (buona parte del low e middle management) eppure un’impresa su quattro è poco propensa a sostenerne la riqualificazione, essendo probabilmente più orientata a utilizzare competenze esterne per le funzioni più qualificate richieste dallo sviluppo tecnologico.
Le rivoluzioni tecnologiche del passato hanno riguardato in particolare gli addetti alla produzione, le cosiddette “tute blu”. I processi di terziarizzazione hanno visto crescere le professionalità intermedie e i colletti bianchi, che negli anni Ottanta e Novanta sono stati un poco le star nella creazione dei posti di lavoro.
Ora si potrebbe addirittura avere un ulteriore travaso di posti di lavoro da queste posizioni a quelle a più basso valore (ma meno rischiose) che costituiscono la parte meno qualificata e più precaria della catena dei posti di lavoro, dove alberga la CIG economy. Già oggi negli Usa otto delle dieci categorie di lavoro a più alta crescita sono i servizi a basso costo. Tutto ciò porterebbe a una nuova precarizzazione per una fetta consistente di chi è al centro del processo di produzione del valore e che ora non è più in grado, anche per motivazioni di ordine anagrafico, di riqualificare il proprio impegno.
Occorre perciò una seria riflessione anche su questo impatto dell’automazione, che potrebbe rivelarsi un ulteriore fattore di alimentazione di quel “risentimento” sociale di cui parla Francis Fukuyama nel suo recente libro sull’identità, e che già oggi sta portando forti cambiamenti sul quadro politico-istituzionale dei singoli Paesi (a partire da quelli di matrice anglosassone), alimentando un approccio difensivo e di chiusura, oltre che di paura verso tutto quanto porta all’innovazione (ritenuta strettamente collegata con gli effetti deleteri della globalizzazione).
Senza un forte ripensamento di politiche di welfare collegate con un nuovo modo di fare riconversione professionale (oggi ancora largamente ancorate a parametri obsoleti non solo in Italia ma anche negli USA) e di ricollocamento anche degli addetti alle funzioni intermedie, c’è il concreto rischio di un ulteriore impoverimento sociale oltre che economico.
“Video killed the radio star” diceva la canzone dei Buggles negli anni Ottanta metafora di un cambiamento tecnologico. Magari si può trattare di un processo di breve periodo, di alcuni anni… ma come ci ricordava lo stesso Keynes citato in apertura… nel lungo periodo (rischiamo) di essere tutti morti!
di Gaetano Fausto Esposito – Segretario Generale di Assocamerestero
Gaetano Fausto Esposito, economista si occupa di analisi economica e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. È autore di numerosi saggi sui temi che riguardano i regimi capitalistici, l’economia finanziaria e dello sviluppo, l’economia industriale, l’analisi economico-territoriale e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. Già direttore dell’Area Studi e ricerche dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, componente dell’Unità di valutazione degli investimenti pubblici e docente di Economia applicata in diversi Atenei, attualmente insegna presso l’Università telematica Universitas mercatorum ed è Segretario Generale di Assocamerestero (l’Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’Estero).

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