martedì, Aprile 23, 2024
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Dazi ed economia di carta: a rimetterci sono sempre i consumatori più poveri

La cattiva notizia, per la verità leitmotiv degli ultimi due anni, è che gli Stati Uniti hanno applicato ulteriori dazi verso la Cina per un valore di prodotti pari a circa 170 miliardi di euro, all’incirca la metà dell’import cinese negli USA. La buona notizia (sic!) è che si tratta comunque di un valore inferiore a quello originariamente minacciato, con possibilità di revisione (anche in aumento) a fine anno. Questo è bastato affinché la Borsa di New York accelerasse la sua corsa e l’indice Dow Jones facesse segnare un nuovo record.
Così, mentre a livello internazionale si avvia una spirale che potrebbe portare ad un rallentamento del commercio mondiale stimato al 4,2% nel 2018, qualcuno (in genere si tratta di quelli già ricchi) sta traendo ancora maggiori guadagni borsistici: si riduce il commercio internazionale di beni e si guadagna sui capital gain, un altro dei paradossi dell’economia di carta.
Dal punto di vista della struttura delle imprese, l’effetto dei dazi su di una economia può essere ambivalente: anche economisti non particolarmente amanti delle misure protezionistiche ne ammettono la possibilità di utilizzo per brevi periodi, quando si tratta di far crescere industrie nascenti che vanno irrobustite prima di rivelare il loro potenziale produttivo.
Qui però la situazione è molto diversa. Dietro l’intenzione di rendere più solida l’industria nazionale, questa politica punta più che altro ad esercitare pressione verso alcuni paesi, in modo da indurli a fare concessioni sul versante del commercio internazionale. Tuttavia, secondo i dati OCSE sui flussi di commercio in valore aggiunto, in media circa un terzo del valore esportato dalla Cina proviene dall’estero, contro il 15% negli Stati Uniti.
Nel caso dei maggiori settori esportatori cinesi – elettronica, computer e macchinari elettrici – il valore aggiunto domestico non supera di molto il 50%, l’altra parte proviene prevalentemente dalle economie avanzate dell’Asia e dagli Stati Uniti. Quegli stessi USA che dovrebbero proteggersi dalle importazioni cinesi e che, invece, così facendo vedrebbero colpita parte della propria industria (quella più internazionalizzata), che ha già fatto scelte produttive orientate verso le catene globali del valore. Se le componenti realizzate in Cina diventano meno convenienti non è detto che io torni a produrle a casa mia. Molto più probabile è che si verifichi lo spostamento verso altri paesi, come è accaduto per la produzione di componenti elettroniche in Vietnam, dove oggi si realizzano parti per una vasta gamma di beni finali (dai frigoriferi agli aerei).
Dunque, l’effetto dei dazi sullo sviluppo dell’industria può essere incerto ma ambivalente, mentre essi hanno un impatto certamente negativo sui consumatori. I dazi sono “tasse” che, alla fine, si trasferiscono sul consumo con un aumento dei prezzi di vendita dei prodotti colpiti. Ora, è vero che nel caso in questione non sembrerebbero interessati direttamente i beni di prima necessità, ma in un sistema economico dalle innumerevoli interdipendenze tra settori, alla fine diventa difficile escludere che anche i beni di consumo possano subire contraccolpi. E tutto ciò potrebbe andare a danneggiare le classi più povere, costrette a fare i conti con prezzi più alti e, di conseguenza, con un minore potere d’acquisto.
Secondo alcune stime riferite al settore automobilistico statunitense, per esempio, per effetto dei dazi sull’acciaio il costo di un veicolo potrebbe salire addirittura di 5.800 dollari (portando, tra l’altro, a minori acquisti e maggiori licenziamenti).
Potrebbe esserci, inoltre, un effetto paradossale che riguarda la produzione cinese nello specifico: una sostituzione di beni a marchio con beni contraffatti (la cui produzione è molto diffusa nel Paese) porterebbe all’elusione dei canali legali di ingresso nei Paesi, sfuggendo ai dazi. Così quei prodotti diventerebbero ancora più convenienti e potrebbero attirare in misura maggiore le scelte delle classi meno abbienti, fornendogli ulteriore incentivo all’acquisto.
Da ciò, potrebbe derivare ulteriore spinta alla polarizzazione della società, incrementando diseguaglianze già grandi: i più ricchi si arricchirebbero ulteriormente per le plusvalenze borsistiche, mentre i meno abbienti si impoverirebbero, sia quantitativamente che qualitativamente. Da un lato, i meno abbienti si ritroverebbero a pagare prezzi più alti per l’acquisto di beni e a vedere ridotto il loro reddito reale; dall’altro, potrebbero essere costretti a ripiegare verso acquisti di minore qualità perché relativi a beni contraffatti. Il tutto con un aumento del mercato della contraffazione, i cui produttori pare si stiano già sfregando le mani.
Si tratta di una pessima notizia in una fase in cui si allargano i divari di reddito e, da più parti, si invocano (spesso invano) politiche di riequilibrio nel tentativo di alleviare le ineguaglianze.
di Gaetano Fausto Esposito – Segretario Generale di Assocamerestero
Gaetano Fausto Esposito, economista si occupa di analisi economica e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. È autore di numerosi saggi sui temi che riguardano i regimi capitalistici, l’economia finanziaria e dello sviluppo, l’economia industriale, l’analisi economico-territoriale e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. Già direttore dell’Area Studi e ricerche dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, componente dell’Unità di valutazione degli investimenti pubblici e docente di Economia applicata in diversi Atenei, attualmente insegna presso l’Università telematica Universitas mercatorum ed è Segretario Generale di Assocamerestero (l’Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’Estero).

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