sabato, Aprile 20, 2024
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Lo stato di salute delle imprese italiane in Cina: l’indagine della CCIC

Monitorare l’andamento delle imprese italiane sul mercato cinese, il loro “stato di salute” e il loro clima di fiducia nel breve e medio periodo: questo l’obiettivo del quarto sondaggio sullo stato di salute delle aziende italiane in Cina, condotto dalla Camera di Commercio Italiana in Cina nel mese di marzo 2023 e pubblicato oggi.
Un’indagine, spiega Paolo Bazzoni, presidente della CCIC, che “arriva in un momento estremamente importante e delicato per il futuro delle nostre aziende su questo mercato, complesso, difficile, estremamente competitivo, ma ancora attrattivo per il “Made in Italy”. Dopo un 2022 che è stato per la maggioranza delle nostre imprese sul territorio un anno di riduzione del fatturato e della creazione di valore, penalizzate dalla politica zero-COVID, con aumento dei costi nella catena di approvvigionamento e perdite anche di presidio manageriale sul territorio, – scrive Bazzoni nell’introduzione al rapporto – il 2023 si apre con rinata energia e desiderio di ripresa, non ancora però consolidata e sostanziata da misure di politica economica che la possano rendere sostenibile”.
“Cautela, quindi, e continua revisione strategica degli obiettivi di mediotermine sono alcuni degli aspetti importanti che emergono dal sondaggio”, anticipa Bazzoni. “Le aspettative di una positiva e stabile ripresa che poi genera una sostenibilità economico-finanziaria, si uniscono però a una diffusa cautela sui nuovi investimenti e sulle strategie di espansione nel breve e medio termine, generando una revisione delle decisioni di allocazione di nuove risorse con una diversificazione del rischio Paese verso aree limitrofe, ASEAN in primis. Rimanendo tuttora un mercato molto importante per la maggioranza delle nostre aziende e dei gruppi di riferimento, possiamo sintetizzare che la Cina non è più la sola e unica fonte di crescita ed espansione. Oggi si guarda anche altrove, senza però disinvestire, mantenendo il focus su qualità, efficienza e innovazione”.
“La generazione di valore, elemento fondamentale per nuovi investimenti, viene percepita sempre di più come obiettivo primario da raggiungere al di là dei volumi, da presidiare e proteggere verso una competizione locale a volte non solo aggressiva ma anche “privilegiata””, evidenzia infine il Presidente della CCIC.
Ma cosa emerge dal rapporto?
“Moderato ottimismo e cautela”
, come anticipato da Bazzoni, sono i sentimenti che accomunano la maggioranza degli imprenditori italiani.
Il quadro del bilancio finanziario nel 2022 non è stato molto positivo. Solo il 39% ha raggiunto gli obiettivi messi a budget per l’anno, mentre ben il 61% non ha raggiunto i KPI in termini di fatturato – tra questi quasi il 18% ha chiuso l’anno in perdita. Ad aver sofferto maggiormente sono state le aziende dell’agroalimentare, del design e in generale tutte quelle realtà legate al retail e ai beni di consumo.
Mettendo a confronto il 2022 con il 2021, quasi metà delle aziende italiane ha subito una diminuzione delle entrate, e oltre un terzo ha avuto una contrazione superiore al 30%. Tra le principali sfide a cui le imprese hanno dovuto far fronte c’è stata la frammentazione della catena di approvvigionamento. I dati dello scorso luglio erano piuttosto allarmanti: il 60% delle aziende italiane aveva registrato un aumento dei costi pari al 60%, e per il 40% il rincaro superava il 50%. A marzo 2023, all’indomani quindi dell’emergenza pandemica, il 69% delle aziende dichiara comunque un aumento dei costi della catena di approvvigionamento pari ad almeno il 30%. Il rincaro dei costi della “supply chain” continua dunque, ancora oggi, a incidere negativamente sul bilancio delle aziende.
Nonostante l’aumento dei costi, la grande maggioranza non ha attuato modifiche alla “supply chain” (67%) e non sta considerando alcuna ristrutturazione, il 26% ha deciso di localizzare parzialmente o totalmente la catena di approvvigionamento, mentre il 6% ha preferito diversificare servendosi dei Paesi ASEAN a supporto del mercato cinese. La maggior parte delle aziende italiane considera “complessa e poco favorevole” una completa ristrutturazione del proprio sistema produttivo in Cina.
Una delle ragioni principali – emerge dal sondaggio – è da individuare nella composizione della filiera di acquisti: ben il 62% delle imprese italiane acquista materie prime in Cina, di queste il 44% si avvale di prodotti cinesi e importa dall’Italia solo alcuni componenti chiave. Il 23% acquista per metà in Cina e per metà in Italia, mentre circa l’11% importa totalmente dall’Italia o da altri Paesi. La Cina continua, dunque, a essere la fonte primaria di approvvigionamento per le aziende italiane, per servire un mercato interno altrettanto importante, in una logica di produzione “in Cina per la Cina”. Una tendenza in crescita a cui si sta tuttavia assistendo è l’adozione della strategia “Cina+1”: la diversificazione della catena di approvvigionamento come motore di crescita, in aggiunta alla Cina.
Guardando al futuro, cauto ottimismo è la parola chiave. Il 70% prevede un aumento delle entrate nel 2023, rispetto al 2022 – per oltre il 42% l’incremento previsto sarà almeno del 20%.
Altrettanto prudente è l’atteggiamento verso gli investimenti futuri nel breve termine: se il 35% pensa sia prematuro prevedere cambi di strategia e il 28% porta avanti investimenti iniziati, il 25% ha posticipato, diminuito o cancellato i propri investimenti in Cina. Tre sono i principali motivi del cambio di investimenti.
Innanzitutto, per il 35% delle aziende, le restrizioni anti-COVID hanno avuto un impatto negativo sull’economia cinese, generando una minore fiducia nel Paese; per il 26% si sono create nuove possibilità di espandere il proprio business e diversificarlo altrove nella regione; infine, per il 20% l’aumento generale dei costi rende la Cina un Paese meno competitivo di altri.
Nonostante questo, la Cina continua a essere nel breve termine “the place to be” per più della metà delle aziende localizzate (57%). Il 24% è ancora incerto, mentre il 19% ha deciso di diversificare: tra questi circa il 13% punta ad altri mercati, ASEAN e non, per ulteriori investimenti. Solo il 3% ha deciso di uscire dal mercato cinese.
Tra i nuovi Paesi di investimento il 24% investe in Vietnam, il 16% in India e Thailandia – nuovi poli attrattivi per un costo minore della forza lavoro, un miglioramento delle infrastrutture, unito a un sistema di dazi favorevole, e una più lieve tensione geopolitica.
Tre sono i principali ostacoli e preoccupazioni identificati dalle imprese nel fare business in Cina: il 73% individua ostacoli legati all’ambiente in cui le aziende operano, che tende a “facilitare” l’accesso al business ai concorrenti locali a discapito delle aziende straniere, e rende più complesso l’accesso agli incentivi messi a disposizione, influenzandone la competitività; oltre il 60% è preoccupato dall’aumento dei costi e dalle difficoltà legate alla liquidità – nello specifico, il 26% dall’aumento dei costi della forza lavoro, il 15% dai costi di produzione; il 39% è preoccupato da una diminuzione della domanda.
Quanto alla gestione delle risorse umane, il 19% dei dipendenti italiani ha lasciato la Cina definitivamente, mentre il 16% sta valutando se rimanere o meno.
Circa il 70% delle aziende ha sostituito dipendenti italiani con professionisti locali – una scelta forzata di non presidio diretto dettata sia dalla difficoltà di attirare espatriati in Cina, che dalla necessità di comunicare meglio con i clienti locali, che potrebbe avere però ripercussioni nel medio termine.
La percezione della Cina, a seguito della fine delle politiche anti-COVID avvenuta a metà dicembre del 2022, con la conseguente riapertura, è comunque più positiva di quanto si potesse pensare fino a qualche mese fa.
Il 49% delle aziende ha riconquistato a poco a poco fiducia nelle potenzialità del mercato cinese, ma permane un 29% che denuncia un forte deterioramento, e perdita di attrazione della Cina come polo di investimento.
Per oltre il 60%, il mercato cinese continua, nonostante tutto, a essere visto come terreno fertile per la crescita del business nel proprio settore di appartenenza e il più grande mercato al mondo dotato di un ambiente di business dinamico. Da non sottovalutare però la posizione del 17% delle imprese italiane, per le quali la Cina non rappresenta più il primo mercato per importanza. Nessun esodo di massa dalla Cina, quindi, ma una crescente tendenza ad avere più opzioni per minimizzare i rischi. (aise)

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